Oltre ciò che si vede: La Discriminazione verso le disabilità invisibili

Abbiamo chiesto a Janire Renzelli, neo dottoressa in Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva e persona che convive con la CMT, di raccontarci i contenuti della sua tesi, in cui affronta con grande sensibilità e rigore scientifico un tema che conosce da vicino: quello delle disabilità invisibili.

Nel suo lavoro di Tesi dal titolo “Oltre ciò che si vede: La Discriminazione verso le disabilità invisibili”, Janire parte da una constatazione fondamentale nel dibattito contemporaneo sulla disabilità: l’attenzione è spesso rivolta alle forme visibili, mentre le disabilità invisibili restano poco comprese e riconosciute. Queste condizioni, pur non mostrando segni esteriori, influenzano profondamente la vita quotidiana di chi convive con esse, generando spesso sospetto, scetticismo e stigma.
La sua tesi analizza i meccanismi psicologici e sociali alla base della discriminazione, con particolare attenzione alle barriere fisiche, simboliche e culturali che ostacolano la piena inclusione. Dopo aver esaminato i principali modelli teorici della disabilità, il lavoro approfondisce il tema dell’abilismo nelle sue varie forme e il ruolo dello stigma, declinato in stigma sociale, auto-stigma e stigma per associazione.

Nascondersi o rivelare?

Un passaggio chiave della sua ricerca discute i processi di concealment (occultamento) e disclosure (rivelazione) della propria disabilità invisibile. Si tratta di strategie identitarie e relazionali attraverso cui le persone negoziano la propria visibilità sociale, oscillando tra il bisogno di autenticità e il timore di subire giudizi o discriminazioni.

Janire ha certamente scelto di rivelare e rivelarsi, scegliendo la CMT, malattia con la quale convive, come caso esemplare di disabilità invisibile; ha, inoltre, raccolto cinque testimonianze di persone con CMT, tra cui quelle di altri ragazzi/e del gruppo generazione Z, al quale anche lei ha preso parte, e tra parenti.

  1. La frustrazione nelle relazioni sociali: La prima testimonianza evidenzia il senso di incomprensione durante le uscite con gli amici. Nonostante questi siano a conoscenza della malattia, la persona si sente giudicata e percepita come “la noiosa che si lamenta” perché la sua stanchezza e il dolore ai piedi non sono visibili. L’assenza di segni esteriori fa percepire la sua condizione come meno grave di quanto non sia in realtà.

  2. L’imbarazzo sui mezzi pubblici: La seconda esperienza descrive la fatica e l’imbarazzo nel cercare di stare in equilibrio su un autobus affollato per andare all’università. La difficoltà non è compresa dagli altri perché, apparentemente, la persona “non ha nulla”. La discriminazione diventa esplicita quando, chiedendo un posto a sedere, un passeggero risponde con fastidio, costringendola a dover dichiarare la propria condizione per far valere un suo diritto.

  3. La difficoltà in ambito lavorativo: La terza testimonianza racconta di una cena aziendale in un ristorante con le scale all’ingresso. La persona ha dovuto fermarsi, spiegare e giustificare la sua difficoltà, sentendosi “al centro dell’attenzione” in un contesto puramente professionale. La difficoltà non è solo fisica, ma emotiva, a causa della necessità costante di giustificarsi in pubblico.

  4. L’esclusione fin dall’infanzia: La quarta testimonianza ripercorre episodi di esclusione subiti fin dagli anni ’60 e ’70. Inizialmente, la derisione a scuola era legata alla malattia della madre e della sorella. Successivamente, con la comparsa dei sintomi, l’esclusione è diventata diretta, come l’essere esclusa dalla pallavolo durante l’ora di educazione fisica. Questa esperienza si è protratta per decenni, con difficoltà legate alle barriere architettoniche in tutti i luoghi di istruzione e lavoro.

  5. La discriminazione diretta sul lavoro: L’ultima testimonianza descrive un episodio di discriminazione esplicita. Dopo aver spiegato al datore di lavoro di non poter usare scarpe antinfortunistiche per problemi di peso ed equilibrio, la persona è stata esclusa dal team. La motivazione è stata che rappresentava “un pericolo” per sé e per l’azienda, un evento definito “un bel colpo a livello psicologico”.

Serve un cambiamento culturale

La tesi di Janire propone una riflessione sul bisogno di un cambiamento culturale, orientato al riconoscimento delle disabilità invisibili come parte della pluralità umana. Un cambiamento che deve promuovere empatia, consapevolezza e politiche inclusive, capaci di superare le barriere che ancora oggi le persone con disabilità incontrano.
L’obiettivo del suo lavoro, che come associazione condividiamo pienamente, è promuovere una maggiore consapevolezza e un cambiamento culturale, valorizzando la diversità e riconoscendo dignità a quelle esperienze rese invisibili dallo sguardo sociale.

A Janire vanno i nostri più sentiti complimenti per questo importante risultato.

Janire, come ti sei sentita nel preparare questa tesi?

In quanto persona con Charcot-Marie-Tooth diagnosticata all’età di 7 anni, scrivere questo elaborato ha rappresentato per me molto più di un semplice percorso accademico: è stato un viaggio personale e identitario. Affrontare un tema come quello delle disabilità invisibili ha significato guardarmi dentro, dare voce a esperienze che per lungo tempo ho sentito marginalizzate o fraintese.

Durante la stesura, mi sono trovata più volte a rivivere situazioni di incomprensione, diffidenza o invisibilità, che non appartengono solo alla mia storia, ma a quella di molte altre persone con disabilità non immediatamente percepibili. Trasformare queste esperienze in oggetto di riflessione scientifica è stato insieme doloroso e liberatorio: doloroso perché mi ha costretta a confrontarmi con la società ancora acerba in cui viviamo, ma liberatorio perché mi ha permesso di restituire dignità a vissuti molto spesso trasparenti agli occhi degli altri.

 

 

 

Leggi la tesi di Janire

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